di Fabrizio Di Buono
Continua il viaggio ai margini della società dell’Urlo del Sole, questa volta attraverso storie che fanno scricchiolare la coesione sociale di una comunità, ambientate in un contesto storico che va dalla fine del 1800 al primo quarantennio del ‘900, ma con uno sguardo che si prolunga nell’attualità.
In queste storie, ciò che viene messo in questione è la morale, il senso comune e la tenuta di un modello di società, quindi anche la sua riproduzione. Sono casi di “devianza”, ossia comportamenti che si discostano da ciò che viene considerato (dai più o da chi detiene il potere?) normale: devianza può essere considerato il crimine, ma anche qualunque comportamento percepito come anormale, scriveva il sociologo francese Durkheim.
Attraverso le storie di Matteo Dalena, tratte dai personaggi e dai fatti del libro edito Ricovero Umberto I. La prigione degli inutili (Falco Editore), e di Francesco Caravetta, raccolte nel suo blog Cosenza, antichi delitti vedremo come l’anormalità viene percepita dalle istituzioni e dal senso comune, e quindi come i casi di devianza vengono utilizzati per rinsaldare la tenuta della coscienza collettiva: la punizione, l’internamento in alcuni luoghi, controllano e riaffermano le regole della vita collettiva.
Il ricovero Umberto I svolgerà questa funzione, un luogo tangibile in cui vive e dimora l’anormalità e allo stesso tempo la controlla, internamente come esternamente: al suo interno attraverso un sistema di gestione e di istituzionalizzazione delle anormalità presunte tali; al suo esterno, come ente punitivo che afferma cosa sia normale e cosa sia anormale nella Cosenza di una presunta belle époque.
Gli “antichi delitti” di Caravetta – vecchia conoscenza del circolo Arci, grazie alla presentazione del libro “Guagliuni i malavita” – ci aiutano a delineare spesso la vita dei margini, elementi che aiutano a capire il paese reale e il senso comune su cui si poggiava il pensiero dominante. Nel caso che verrà esposto nella serata, quello del mafioso Antonio Mazza, che chiedeva la camorra in quel di San Lucido, è esemplare per inquadrare la mentalità in determinati ambienti: da malavitoso a femminiello, nel tentativo di farsi riconoscere come “malato di mente” ed evitare l’ergastolo. Ma il femminiello risulta essere un’offesa troppo grande, come si vedrà.
Le storie, in particolare quella dell’Umberto I, ci conducono all’esercizio del potere disciplinare, ossia, in accordo con quanto scritto da Foucault in Sorvegliare e punire, all’applicazione nello spazio dell’esclusione la tecnica di potere dell’incasellamento disciplinare. Bisogna “individualizzare gli esclusi”, servendosi “di procedimenti di individualizzazione per determinare le esclusioni”, creando in questo modo una divisione semplice – un essere e non essere – e una distinzione che faccia riconoscere tale divisione, cioè rendendole categorie riconoscibili da tutti, per mano di un’entità morale. La prigione degli inutili diventa qualcosa che deve essere visibile senza interruzione e riconoscere immediatamente l’anormalità, quale essa sia e come reprimerla. Divisioni spaziali e disciplinari che ritroviamo nei racconti di Caravetta che si ripercuotono su chi nasce, mentre non doveva nascere, su chi è marchiato, su chi deve fingere un’infermità e quindi dimostra di essere educato al sistema, insomma, emerge nei fatti di vita che potremmo definire quotidiana e nelle avventure carcerarie di alcuni protagonisti di queste storie vere, passate agli atti.
A discapito di tutto ciò, però c’è un nascondere. E ciò che si nasconde è la storia di questa struttura, che sino ad ora abbiamo chiamato Ricovero Umberto I, mentre prima di essere “ente morale” era Monastero di Cappuccini. Il patrimonio architettonico che illustra Alessandra Carelli viene nascosto per mettere a nudo l’anormalità costruita. Patrimonio però di rilievo, in particolare se lo connettiamo alla collocazione urbana della struttura, ossia a 100 metri di distanza dal famoso Castello Svevo sul colle cosentino, dove ci si arrabatta nei lavori di recupero, mentre pochi metri più in là, in un viottolo laterale, si scorge un palazzo in totale abbandono, chiuso appena nel 1997, ma distrutto dall’incuranza e dalle storie degli scandali finanziari che non hanno mai riversato una lira nel recupero della struttura. Ciò che si perde è storia dell’arte lì dentro: dipinti, volte, patii, nel degrado che continua ad accogliere altri emarginati della società.